Un vero peccato perché l’Eritrea, grande un terzo
dell’Italia e stato autonomo soltanto dal 1993, ha parecchio da offrire. Si
parte da un’estrema varietà geografica, ambientale e climatica, capace di
spaziare dall’infuocato deserto di lava e di sale della Dancalia, uno dei
luoghi più caldi e inospitali del pianeta, alla fresca eterna primavera degli
altopiani sull’acrocoro centrale con le sue caratteristiche montagne piatte, le
ambe, dall’arida steppa alle foreste di tipo alpino, dalle calde coste
occidentali del Mar Rosso, esuberanti di vita subacquea, fino a montagne alte
oltre 2.500 metri. Alla varietà ambientale corrisponde una notevole ricchezza
etnografica, con ben nove diverse etnie, ciascuna con propria lingua,
religione, costumi e tradizioni. E che dire degli 8 mila siti archeologici censiti,
anche se parecchi ancora da scavare, dove si spazia dalla preistoria alla
civiltà axumita ed ai monasteri copti con i loro tesori nascosti tra le
montagne. Due apprezzabili perle sono poi costituite dalle principali città: la
capitale Asmara, elegante e tranquilla fondata nel 1889 dagli italiani
sull’altipiano a 2.300 m, che conserva nell’architettura, nella toponomastica e
nelle abitudini una chiara impronta coloniale italiana, tanto da sembrare il
set di un film di Fellini, e la torrida città portuale di Massawa, dalla netta
impronta arabo-moresca, i cui bei monumenti arabi, turchi e italiani sono stati
purtroppo sistematicamente distrutti dai bombardamenti etiopi. Straordinaria
per il panorama e mozzafiato per il percorso la strada che collega queste due
città, capace di superare in 115 chilometri un dislivello di 2.300 metri con
arditissime soluzioni di ingegneria. Comunque il vero gioiello naturalistico di
questa nazione del Corno d’Africa è costituito dall’arcipelago delle Dahlak,
oltre 200 tra isole e isolette al largo di Massawa che sembrano un tratto di
deserto affiorante tra le acque del Mar Rosso, il mare con il più ricco
ecosistema della terra. La maggior parte sono soltanto minuscoli banchi
corallini fossili aridi e spogli, alti pochi metri e inferiori al chilometro
quadrato di superficie, senza nome e con belle spiagge coralline deserte, luogo
ideale di nidificazione per milioni di uccelli. Solo quattro sono abitate da
miseri villaggi di pescatori e solo qualcuna presenta una struttura vulcanica,
con modesti rilievi. L’isola maggiore è Dahlak Kebir, grande cinque volte
l’Elba, e ospita l’unico albergo; fu abitata da sempre da popolazioni arabe per
la presenza di acqua, raccolta in 365 cisterne; offre un po’ di vegetazione,
capre e dromedari al pascolo, diversi villaggi, un cimitero storico musulmano e
i resti di un penitenziario italiano; fu base aerea e navale etiope e russa
durante la guerra etiope-eritrea. La povertà ambientale delle isole contrasta
con la straordinaria ricchezza marina, formata da reef corallini e scogliere di
madrepore poco profondi e intatti, capaci di ospitare tremila specie viventi,
350 di coralli e oltre mille pesci diversi coloratissimi, un quinto dei quali
endemici, da delfini, razze e mante a squali e ai rarissimi dugonghi, le sirene
del mito, a formare il più incredibile degli acquari naturali, poco frequentato
per la guerra prima e la mancanza di strutture turistiche ora. Un vero paradiso
sub, tuttavia destinato a durare come tale ancora per poco.